Venere/Adone

 

 

“allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e
soffiò nelle sue narici un alito di vita
e l’uomo divenne un essere vivente.” [Genesi 2:7]

 

 

Venere/Adone è un lavoro sulla genesi dell’amore.
È un lavoro che parla della profonda mutazione che le esperienze amorose compiono sugli esseri umani e della metamorfosi che il desiderio opera su ogni innamorato, senza alcuna distinzione.
Amore, desiderio, metamorfosi, presagio, ineluttabilità e solitudine: le parole-chiave e i concetti che ne costituiscono l’impalcatura. Il testo di riferimento è il noto Venus and Adonis, poemetto di Wiliam Shakespeare pubblicato nel 1593 e scritto – per “sfruttare al meglio le [mie] ore d’ozio” – mentre a Londra infuria la peste e i teatri restano chiusi. Dall’isolamento e dal desiderio di non essere dimenticato (impossibile non ritrovare una forte aderenza con il tempo che stiamo attraversando) nasce questo testo vivo e carnale che, benchè in forma poetica, ha una struttura fortemente teatrale: Venere, la dea, si innamora di Adone e cede al richiamo del desiderio, desiderio che risulta osceno – nel senso letterale di «fuori dalla scena» – in quanto la colloca fuori dai propri confini consueti, in una forma umanizzata, degradata e in un campo, quello amoroso, abbandonato e non padroneggiabile. Il desiderio di Venere è perciò un desiderio «umano», ma elevato all’ennesima potenza dal suo statuto di dea, una contraddizione in termini, che è quella stessa dell’amore, in cui la gioia sfrenata, la felicità, l’euforia trovano il loro infinito nutrimento insieme alla sofferenza e al dolore.
Ed è in questo vortice di antitesi e irragionevolezza che si fonda il mio lavoro che parte dal più lucido dei presagi: se dall’amore si riesce ad uscirne vivi ci si ritrova profondamente cambiati. Ecco la vera metamorfosi: un processo di cambiamento continuo, chimico, che intacca e consuma la mente e il corpo a livello molecolare che finisce inevitabilmente con l’alimentare il desiderio della fuga.
Fuga dal confine sul quale tutti viviamo.
Fuga e mutazione sono il centro dello sviluppo drammaturgico di tutto il lavoro, la cui parabola è narrata attraverso l’incapacità di “stare” – nel proprio quotidiano, nella propria casa, nel proprio corpo – e il cui motore è il costante senso di insazietà di Amore, rimanendo nel mito.
Il cuore della metamorfosi dunque, sarà affidato non solo alla potenza della parola shakespeariana, ma anche all’uso del linguaggio del corpo e della poetica del gesto.
La labilità del confine che esiste tra quello che si è e quello che si può o vorrebbe essere, si incarnerà, partendo dalla ricerca performativa di Günter Brus e di Olivier de Sagazan, in un continuo cambiamento della forma del mio corpo attraverso l’uso dell’argilla, traducendo in mutazione l’ambiguità dei due archetipi – Venere/Adone – che racchiudono in sè la triade maschile-femminile-istinto, diventano centrali nella performance.
Il cambiamento riguarderà tutto: lo spazio, i colori, i suoni – elementi questi – che dall’essere quotidiani, comuni, riconoscibili, si trasfigurano nella loro forma degenerata.
Un’azione performativa demiurgica: come Dio, modellando il fango, genera la vita e, dunque, l’amore, così l’attore riproduce il rito della creazione modellando se stesso infinite volte e avverrà in uno spazio bianco, come paradigma di purezza, di candore, di espressione dell’amore più autentico. Quell’amore divorante e accecante che come la fiamma alla sua più alta temperatura, irradia di luce perfino la morte.

 

DIARIO DI VIAGGIO: IL RACCONTO DELLA RESIDENZA ATTRAVERSO LA VOCE E GLI OCCHI DELL’ARTISTA

Qual è per te il senso e il valore di uno spazio di residenza artistica?
“La residenza è una cosa che si può fare anche in una sala normale dove non si dorme e si lavora nello stesso luogo, però la dimensione residenziale consente, soprattutto quando sono varie le realtà che si avvicendano dentro la struttura, anche al confronto. l’idea di poter parlare, chiacchierare, incontrarsi in un refettorio piuttosto che in un cortile piuttosto che in un luogo comune e discutere su un’idea, invitare in sala a mostrare cosa si sta facendo, avere un punto di vista diverso da quello a cui si è abituati è fondamentale per fare un reset, per portare tutto al concreto, al pubblico, alla polis”