The dead dogs

 

di Jon Fosse
traduzione Thea Dellavalle
progetto Thea Dellavalle-Irene Petris
con Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini, Federica Fabiani, Luca Mammoli, Irene Petris
suono Claudio Tortorici con la partecipazione di GUP Alcaro
musiche Paolo Spaccamonti
luci Paolo Pollo Rodighiero
produzione La Corte Ospitale, DELLAVALLE/PETRIS
con il sostegno di Sementerie Artistiche
in collaborazione con Centro Teatrale MaMiMo’

Spettacolo vincitore Forever Young 2017/2018 – La Corte Ospitale

SINOSSI

Il tempo passa uniforme sui luoghi, si deposita, a volte, sulle persone come sulle cose, una patina che lentamente cambia i colori, le emozioni, cristallizza i rapporti.
Una routine che comincia a fare a meno delle parole, che le svuota.
Finchè non succede qualcosa, proprio dove tutto è sempre come al solito.

*dead dogging (dizionario urbano): distanziarsi emotivamente da una relazione, come quando sai che il tuo cane sta morendo e prendi distanza perché non sia emotivamente devastante.

The dead dogs: FAQ (frequently asked questions)

Questo testo è un thriller?
Chi sono The dead dogs?
Sono un piccolo gruppo musicale con giacche da college americano con il nome ricamato in paillettes sulla schiena?
Sono una garage band dei fiordi?
Sono quello che ci lasciamo indietro, quello che dobbiamo seppellire mentre affrontiamo la vita?
Sono legami che dobbiamo rompere per andare avanti?
Cosa vogliamo davvero vendicare?
A cosa serve il guinzaglio appeso nell’ingresso?
A chi serve il guinzaglio appeso nell’ingresso?
E il nostro, dove lo abbiamo dimenticato?
Le persone stanno davvero bene quando dicono che stanno bene?
Se non è così, perché mentono?
Perché noi le lasciamo mentire?
Andremo ancora a pescare sul fiordo? 

NOTE DI REGIA

Un giovane uomo uccide il suo vicino di casa perché il vicino di casa ha ucciso il suo cane.
Violenza cieca che esplode nel quotidiano.
Orrore, solo a pensarci.
Risuona l’eco di molteplici fatti di cronaca, di come vengono raccontati e sezionati dai media. Orrore.
Eppure istintivamente vorremmo schierarci con il giovane uomo, l’assassino.
Perché?
Perché il giovane uomo non è un serial killer, non è in preda alla follia, il suo gesto segue una logica, una logica tragica e primitiva, una logica di vendetta. Compie un delitto passionale, difende un affetto/ il suo unico affetto, un legame/il suo unico legame, un amore, un amico/il suo unico amico. Vendica il senso muto dello stare accanto, dell’essere compagni nella purezza che è o sembra essere ormai solo dell’animale. Il cane “è solo un cane”, certo,  e proprio per questo non conosce non-detti né rancori né menzogna, è libero dalla zavorra che la parola porta con sé, dalla trappola che diventa il linguaggio nei rapporti descritti da Fosse, così fallibili e così umani.
E’ per questo che sentiamo che questo orrore ci riguarda?
Questa domanda è uno dei moventi del progetto che nasce anche dalla volontà di continuare il confronto con la drammaturgia di Jon Fosse iniziato con lo spettacolo Suzannah (2014).
Il testo tocca corde profonde sul valore dei rapporti, dei legami, del tempo, sulla differenza tra continuità e cambiamento, tra vedere e guardare, tra sentire e ascoltare, sul senso e sulla forma del tragico nel nostro tempo. Lo fa attraverso una forma di scrittura scarna, essenziale  Non c’è quasi niente. Un titolo. Pochi personaggi senza nome: LA MADRE, IL GIOVANE UOMO, L’AMICO, IL COGNATO, LA SORELLA. Una breve didascalia descrive lo spazio. Quello che accade, può riassumersi in poche righe. Il linguaggio (il linguaggio,il linguaggio sì ci interessa) è quotidiano. Le frasi vanno a capo simili a un testo poetico, a una partitura musicale, il ritmo delle battute e dei dialoghi è frammentato. E’ nel movimento della parola, nel suo esitare e ripetersi che sembra nascondersi il senso. Questa scrittura non basta al lettore, ha bisogno di incarnarsi, in un volto, una voce, una durata. Chiede con prepotenza una messinscena. É teatralità ridotta all’osso. Testimonia il peso, la forza e la necessità di ciò che parola non è, di ciò che è inesprimibile, che, della nostra vita, è la parte maggiore.
La comunicazione ha saturato quasi ogni ambito della vita pubblica e privata ma i rapporti sono più fragili e si deteriorano facilmente, ci sembra attuale riflettere sull’importanza di mantenere la comunicazione con gli altri prima che le emozioni non si possano più contenere.
Nel tratteggiare una sorta di anomala ed estrema elaborazione del lutto e che in fondo riguarda una morte collettiva, la bellezza di Fosse risiede anche nella capacità di non rinunciare agli aspetti più buffi e ridicoli dell’uomo, alle contraddizioni che ribadiscono attraverso la risata il senso di sfasamento e scollamento dalla correnti profonde del sè.

 

Spettacolo vincitore Forever Young 2017/2018 – La Corte Ospitale
Dalla motivazione della giuria:

“[…] un testo scelto con coerenza rispetto alle linee guida del bando, che affronta il tema delle relazioni irrisolte all’interno della famiglia e della violenza latente che in generale serpeggia nella società contemporanea. Lo spettacolo […] già mette in evidenza una regia nitida e compiuta e ha come punto di forza un gruppo di attori e attrici di talento, soprattutto nella capacità di sostenere i ritmi e i “non detti” tipici della scrittura di Fosse.”





RASSEGNA STAMPA

Franco Cordelli, Corriere della Sera "Il vero tema è nella scansione quasi sillabica del dialogo. Tutti parlano, ma ad esser muto, o come muto, è ogni protagonista. Cruciali, in Fosse,sono le pause, dunque il ritmo. Più vicino a Pinter che a Ibsen, il suo tema è quello non di un norvegese ma di uno svedese, Bergman, il suo tema è il silenzio."

Rodolfo Di Giammarco, La Repubblica" Nell’impegno strutturale, nel linguaggio degli attori, nella resa comunicativa di questo approccio ho riscontrato uno scientifico rispetto delle prerogative di Jon Fosse: la laconicità, la frugalità, il ciclico silenzio, l’afasia, la labilità, l’affetto solo clandestino degli esseri umani. [...] Ma lo spettacolo ha un gran sentimento della pietà, e della precisione"

Sergio Lo Gatto, Teatro E Critica "In questo spettacolo si avverte innanzitutto un meticoloso lavoro sul ritmo della lingua. Thea Dellavalle, ci spiega, non si limita a realizzare una traduzione dall’inglese (pratica tristemente abusata, in passato, su testi non anglofoni né francofoni all’origine), ma si occupa – dizionario norvegese alla mano – di vericare la ricorrenza dei termini, per assicurarne l’incidenza e la necessità. Il basso continuo è un grave senso di disagio, condiviso tra attori e spettatori. Il ritmo delle battute, così scandito da silenzi già cronometrati in didascalia, si avvale non solo di uno studio minuzioso dell’emissione vocale da parte di un solido ed ecace gruppo di attori e attrici, ma di un calibro preciso della dimensione spaziale, organizzata in un palco vuoto dove spiccano tre panche bianche, un vassoio per il caè e lo schiao cromatico dato da abiti in tono con lo di palloncini colorati che segnerebbe il “benvenuto”, ma che viene rimosso quasi subito, al manifestarsi di quel ghiaccio delle relazioni di cui Fosse è maestro."

Maresa Palmacci, Recensito.net "The dead dogs” è dunque un urlo silenzioso, soffocato, attraversato da un velo di comprensione e compassione. Una sinfonia sincopata, una partitura di pause e ripetizioni, malinconica e tagliente. Un quadro espressionista dai toni freddi che consente di vivere i sentieri, i nodi e gli snodi dell’imprevedibile universo umano e il suo esistenzialismo: per esistere bisogna agire, per esistere è necessario soffrire e forse morire un po'."

Laura Bevione, PAC"Uno spettacolo che agghiaccia e spinge, usciti dalla sala, a parlare, a confrontarsi con gli amici su quanto ci sta accadendo nella nostra vita: una necessità involontaria eppure urgente. Merito dunque a Devalle/Petris e ai loro misurati e concentrati compagni di palcoscenico per aver saputo portare in scena un testo irto e forse persino respingente, che richiede cura e attenzione; un testardo e affettuoso desiderio di comprendere ed essere con quella storia, con quei personaggi, con l’altro da sé…"

Nicole Jallin, Cahiers des Arts "Questa impronta evocativa, propria della scrittura di Fosse, si coglie molto bene nello spettacolo (già vincitore di Forever Young 2017/2018 – La Corte Ospitale) che Thea Dellavalle – alla quale si deve anche la traduzione – e Irene Petris mettono in scena servendosi di pochi supporti scenici (tre panche, della terra e qualche palloncino colorato) e un giusto equilibrio tra regia e interpretazione (precisa di Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini, Federica Fabiani, Luca Mammoli e la stessa Irene Petris) che immerge lo spettatore tra le relazioni umane, tra le loro emozioni, le loro percezioni non-dette."