Nel lago del cor

di e con Danio Manfredini
musiche composte ed eseguite dal vivo da Francesco Pini
aiuto regia Vincenzo Del Prete
disegni e maschera Danio Manfredini
progetto audio Marco Olivieri
progetto luci Giovanni Garbo
pittore scenografo Rinaldo Rinaldi
costruzione scena Alan Zinchi, Officine Contesto
editing video Ivano Bruner
direzione tecnica Guido Pastorino
produzione La Corte Ospitale
con il sostegno di Théâtre du Bois de l’Aune
in collaborazione con Armunia Rosignano Marittimo

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
(Dante Alighieri)

Il sonno è abitato dai fantasmi che tornano, un uscire dal lager per rientrarci continuamente in un incubo ricorrente, quando di notte il presente del sonno e il passato si condensano nel sogno in una dimensione fatta di miseria, morte, pioggia, neve, freddo, paura…
Il deportato appare come un fantasma, figura onirica, il giovane che era nel lager.
Un soldato liberatore del lager appare nel sogno con le sembianze di un angelo accompagnatore per rientrare in quell’inferno: con la musica, il canto, la presenza, rende più sopportabile l’entrata in un mondo duro che contempla in continuazione la vita come la morte.
Il deportato cade lì, in quel varco della coscienza, un buco nero che ha accompagnato l’esperienza di molti sopravvissuti ai lager, segnati in seguito da quella che fu definita “sindrome da campo di concentramento”.
Le parole del deportato sono stralci di dialoghi, frasi salvate dalla memoria, suoni di lingue diverse in una strana Babele e si intrecciano alle canzoni dell’angelo che eleva il lamento umano alle sfere celesti.

Nella pittura che viaggia sempre sul fondale con un flusso inarrestabile di immagini, si imprimono le selezioni, il lavoro forzato, le camere a gas, i crematori… il viaggio nell’immaginario prende forme acquarellate, bianchi, neri ma anche colori più decisi, forme più materiche, a tratti lisergiche e fanno da motore al movimento fisico del deportato che sembra spinto dal vento, dalla pioggia, dagli spari o dal silenzio.
Le parole recitate, la musica, la danza, la pittura sono sempre insieme, stratificate. È Il tentativo di raccogliere in questa rete le emozioni, attraverso i poveri mezzi del teatro, e la complessità di quell’esperienza umana.

Dedico questo lavoro ai sopravvissuti perché le loro parole sono state una guida e lo dedico come un requiem, a tutti coloro che sono morti in quei lager senza lasciare traccia

Qualche nota sul processo di lavoro.

Sono stato attirato da un libro sullo scaffale della libreria di casa, “Se questo è un uomo” era l’estate del 2017. Un libro che avevo letto nel passato e che mi richiamava.
Nell’agosto del 2018 sono andato a visitare il lager di Auschwitz, un caldo afoso, ed era un po’ strano, perché dalle immagini dei documenti, avevo impresso gli inverni, la neve, il freddo.
Più di trenta gradi. La visita guidata da una ebrea polacca sui settant’anni che severamente redarguiva chi si faceva aria con il ventaglio: lo trovava un gesto irrispettoso per chi era morto nelle camere a gas. Cercavo, in quello che oggi è rimasto del lager, di ritrovare quei dettagli che Primo Levi ben raccontava nel suo diario, e così mi tornavano in mente anche quelle righe dove parlava delle soffocanti estati polacche nelle baracche.
Tornato casa, altri libri hanno cominciato a girarmi per le mani, “La banalità del male” della Arendt e cataloghi che avevo acquistato alla libreria del lager in Polonia. Una specie di curiosità ossessiva, mi ha spinto a cercare documenti, filmati che potevo trovare in internet, le testimonianze dei sopravvissuti…
I primi segni del lavoro che hanno cominciato ad affiorare, sono stati dei gesti coreografici, così ho cominciato col comporre delle danze. La Corte Ospitale di Rubiera si è proposta di produrre il lavoro.
Hanno cominciato a depositarsi sulla carta frammenti dalle testimonianze, dai libri.
Poi incontro Francesco Pini, amico musicista. Le sue canzoni hanno aperto una possibilità di collaborazione. Ritrovavo delle assonanze con quello che stava scrivendo e il tema che stavo affrontando. Si è aperta una interlocuzione che ha dato forma alla possibilità di integrare la musica come asse importante del lavoro e la presenza del musicista, in una figura teatrale, con la funzione di accompagnatore nell’inferno del lager.
L’impatto pratico con il palcoscenico ha richiesto un’allerta tesa a scoprire l’opera, come una rivelazione: uno stato di ascolto, una resa, un abbandono del conosciuto, per lasciarsi guidare da un istinto sotterraneo al quale si dice sì, senza sapere bene il perché.
La materia già dall’inizio, ha segnalato una dimensione non naturalistica, per il linguaggio delle coreografie, per la musica, per la presenza della pittura, che ha assorbito buona parte della narratività, affidando all’immagine pittorica le suggestioni del luogo.
Altri autori hanno affiancato Primo Levi e sono stati una guida per il lavoro: Gradowki, un deportato del sonderkommando che si occupava di camere a gas e forni crematori. Seppellì il manoscritto in una borraccia di alluminio, l’autore fu ucciso ma il manoscritto fu ritrovato e pubblicato. Ka- Tzetnik, pseudonimo di Yekiel De-Nur che si sottopone alla terapia di uno psichiatra olandese prof. Bastiaans a base di LSD, per affrontare la sindrome da campo di concentramento. Il film di nove ore “Shoah” di Lanzmann che raccoglie testimonianze di molti deportati sopravvissuti ai lager. I documenti filmati dai liberatori quando sono entrati nei lager. “Kalendarium” che annota gli avvenimenti nel campo di concentramento. I testimoni italiani sopravvissuti che hanno rilasciato interviste.
Queste, alcune fonti, che sono state da guida principale.
Nel lavoro delle prove ho chiesto l’aiuto di Vincendo Del Prete, un prezioso collaboratore che da anni mi affianca come attore e aiuto-regia. Potermi affidare al suo sguardo mi ha aiutato a procedere. Mi ha sostenuto con indicazioni, suggerimenti, che hanno saputo cogliere ogni volta dalle mie esposizioni spesso nebulose e confuse, gli indizi per trovare la strada, affinché ogni scena potesse prendere forma.

Devo ringraziare anche tutti gli amici con i quali ho interloquito durante tutto il processo, artisti e intellettuali che sono stati di grande incoraggiamento.
Devo un particolare ringraziamento alla Corte Ospitale di Rubiera che produce e sostiene questo lavoro.

Perché occuparsi di questo tema? Perché cercare di farne un’opera teatrale?
Domande che mi sono fatto durante la creazione. Non hanno trovato delle risposte esaurienti.
Mi sono detto: per ricordare tutte quelle vittime innocenti e i sopravvissuti?
Mi sono detto: perché in quel concentrato di mondo si sono condensate le più potenti pulsioni umane la violenza, il sopruso, il potere, l’amore, la solidarietà, la miseria, la solitudine, la morte, la tortura, la dinamica vittima e carnefice… l’ossessione, come un qualcosa sulla quale si ricade nonostante la volontà di volersene liberare?
Ma alla fine l’ho fatto e basta. Quando mi dispongo ad attraversare l’esperienza, mi si aprono squarci inaspettati, qualcosa di più grande della mia comprensione o raziocinio.
Del resto, un sogno, un incubo, non è facilmente spiegabile e mi inchino al mistero.

Danio Manfredini